sabato 26 ottobre 2013

Il sentiero

dettaglio dell'affresco di Benozzo Gozzolli - Cappella dei Magi, palazzo Medici Riccardi


Credevo che il sole non avrebbe più ferito gli occhi, che non sarei più stato costretto a farne fessura per misurarmi al suo deflagrante calore.

Ma siamo déi confusi, gettati su di una strada che non ci offre nessuna indicazione utile sul dove sia meglio guardare; dove decine, centinaia di persone sembrano non aver bisogno di guardare quell'astro luciferino per conoscere quale sia la direzione che davvero valga la pena percorrere.

Attenderò la notte, pensai. Le stelle lontane saranno amiche, suggeriranno un futuro che mi aspetta.

Ma siamo déi malati e, mentre l'attesa per la fresca, dolce notte colorava i vagabondi con i toni ocra di un tramonto da venire, il tempo cominciò a far sembrare quest'attendere sempre più inutile, il ciglio fragrante dove stavo sostando, scomodo. Tutte le facce sconosciute che mi passavano davanti più determinate di quanto sarei mai potuto essere. Più sicure. Degne.

Mi sentii fuori posto. Guardavo schiene piegate sotto quei fardelli con invidia, il sudore che colava dalle loro fronti come guarda l'acqua di una fonte un assettato da venti giorni di deserto.

Guardavo decine, centinaia di esistenze sfilarmi d'innanzi, ed io, come un pigro, un senza casa e dignità, un buono a nulla, rimanevo lì ad osservare, come godendone la fatica.

Cosa penseranno di me, pensai cosa penseranno, carichi delle loro cose guadagnate, del loro degno fardello, di quest'uomo che beato, proprio sul crocicchio della via, se ne sta senza nient'altro da fare che. Che spiumare i petali gialli dei piscialletto, pensai.

Così. Preso dalla vergogna incontenibile per l'inutilità che in quel momento rappresentavo nei confronti di quegli instancabili lavoratori. Mi alzai, staccandomi dalla terra accogliente e morbida. Mi diressi verso il centro della strada.

Senza sapere cosa avrei fatto una volta arrivato là mi trovai circondato da ogni tipo di umanità. Uomini con fagotti su entrambe le spalle e donne che sfoggiavano bandoliere intere di pupi urlanti, in equilibrio sulla testa vasi d'acqua o vino, involti di stracci. Intorno, come cani da mercato razzolavano una selva di cuccioli d'uomo, rimessi in riga ogni tanto, con grida imperative a secche, da quello che poteva essere un padre, o ripreso dalla voce alta ed autoritaria di un'ipotetica madre, sovrappeso e baffuta.

Quello che dall'esterno era sembrato un quieto flusso umano, al suo interno si rivelò essere un pandemonio di strilli e polvere. Il sudore, così distante dall'acqueo rilucere vivo visto da da lontano, impregnava ogni movimento e saturava il respirare. La polvere come una foschia perenne, si sollevava dal sentiero, mischiandosi alla fatica di questa carovana chiassosa e casuale, in un'amalgama di fango e fatica.

Quando giunsi nel centro della bolgia ero ormai così sconvolto e stremato che faticavo a trovare il cielo. L'unica cosa che in quell'orgia di chiasso, in quella confusione bestiale, mi permetteva di orientarmi, erano le spalle di chi, come me, non vedeva che le spalle di chi gli stava poco di fronte.

Andare avanti ancora un poco prima che la sera giunga completamente.

Ma siamo déi ciechi, sotto tutta questa polvere nemmeno si vedeva il cielo. Nemmeno si vedevano le stelle, troppo lontane e troppe pure, giocosamente nascoste ai miei occhi rossi nello sforzo di capire quel che avevamo intorno.

E calci, spintoni, alitosi e puzza da bestie che mi sbatteva addosso.

E bestemmie e corpi che mi portavano in un avanti che non avevo scelto e che adesso mi trascinava via.

Ma siamo déi persi, sotto la polvere di questo continuo avanzare, portarsi avanti verso una meta che nemmeno noi siamo davvero in grado di descriverci, così distanti dal cielo, dall'iperboreo. Caricati da troppo peso sulle spalle. Affaticati coliamo il sudore della nostra fronte in un simile fiume di fango nel quale guadiamo, un piede dopo l'altro, uniti da una speranza basata su qualcosa che troppo assomiglia alla ragliata promessa di un sudicio prete. La mano sulla spalla di chi ci è di fronte. Che io non mi perda, che tu non ti perda fratello. Nostra sorella ci rinfranchi ogni tanto e terga con mano partecipe la polvere dagli occhi. Nella speranza di rivedere il sole, che un cielo sgombro ci possa finalmente indicare la strada giusta da percorrere.

Non ricordo più quanti giorni sono ormai che avanzo. Ricordo a malapena l'odore dell'erba. A volte, stremato, raggomitolato per cercare calore, mi soffermo a pensare al momento in cui abbandonai il ciglio sul crocicchio. Sento i muscoli frustarmi le ossa per la fatica. Cerco di convincermi che no, la cosa giusta è andare avanti insieme ai miei simili, ai miei compagni. Un destino comune a percorrere una strada comune. Shangri-La? Berlino? Un mondo più giusto, un modo più dolce di sentire il tempo e sentirsi singoli e moltitudine. Mi soffermo a giocare con la fantasia, immaginando di non essermi alzato, di aver atteso semplicemente che il sole sfumasse ocra e tenebra, che facesse posto alla notte, alle fottute stelle. Mi sorprendo a chiedermi se attraverso quelle antiche luminosità avrei potuto forse trovare un sentiero diverso da questo. Avessi avuto la pazienza di attendere. La forza di non cedere alla solitudine. Il coraggio di affermare la scelta di non muovermi.

Ma siamo déi sognatori e la nostra specie difficilemente ammete l'esistenza di strade diverse da quelle che gli hanno dimostrato.

Perso tra reale ed il sogno mi muovo cercando un contatto di chiunque sia che adesso giace qua di fianco a me. Per riscaldarmi un po' il sangue, sentirmi meno solo che devo dormire. Domani sarà una giornata lunga, faticosa. Incontro ad un mondo nuovo e più giusto. Un'altra giornata ancora.

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