domenica 28 novembre 2010

Triggers point





Come ogni domenica pomeriggio son qua che bevo e scrivo in cucina. Ho messo un po di musica e spento la televisione. Mi rendo conto che ascolto la stessa cosa ormai da un mese. Che è da un mese che oscillo tra un delirante stato d'euforia ed il dolore che mi sgretola la faccia. Nevralgia del trigemino, la chiamavano la malattia del suicida. Ne soffriva Chat Baker, anche se dalla sua biografia non è chiaro se fosse vero oppure la utilizzasse come scusa per farsi dare la morfina. E' la guaina mielinica che se ne va a puttane e comincia a sparare segnali elettrici sbagliati, deliranti, un tilt neurologico che segnala dolore quando invece andrebbe tutto bene. 
Differenza di potenziale neurale. I neuroni soffrono lo stress ed il freddo, probabile che m'accusino d'incuria. Penso alla morte di Bunny Murno e mi mangio la mia dose di tegretol prima di ricaderci. In questa giornata umida intendo.
Mi piacerebbe parlare di una schiena flessa, del vibrar della carne che scambia elettricità dall'aria alla lingua. Non ora. Non adesso.

Q - Chiunque


La verità non è scritta in calce
non in piccolo
non una postilla.
Non sono i politici
né sta dentro di noi
né può farci qualcosa un amore:
se ne nutre soltanto, come bestia.
Scrivo del sub-mondo.
Scrivo del non-mondo.
Sicurezza chiusa dietro alle porte di un ipotetico testamento.
Come sua sorella la realtà
condivide il destino
strappata e storta.
Poeti come giornalisti come politici come non meno che ognuno di noi
come me nascosto
e insetto di un futuro incerto.
Scrivo solo e ringrazio le voci inesistenti
che mi fermano.
Strappato e distorto
non posso non ascoltare
toccare: provare ad essere.
Inutile niente riflesso dall’immutabile e perenne esistere,
come un da troppo lontano provenire.
Mi legge l’ineluttabile, destino.

domenica 21 novembre 2010

Lettera al sangue grigio (epitaffio per una menade)

marylin

È di un’accecante inutilità la prima visione, quando finalmente torni indietro, la tridimensionalità del colore, l’ampiezza e la forma dell’abbagliante consistenza di una realtà che per un attimo diventa comprensione del tutto quanto della pochezza di essere.
Lo sbadiglio arruffato d’ossigeno d’un corpo che torna.
Vibrante e chimico.
Sufficiente e preciso.
Seduto, calmo, da qua posso sentir tradotto lo strappo della tua femminilità, della dipendenza, della carne grigia, fibrosa.
Furono le tue mani d’acqua e argilla che plasmarono nuovamente il mio odio, prima di cadere nell’innocuo misurasti il mio spirito dal polso all’anulare, negando errore, come una tela, una malattia, tessuta e luminosa come filaria, intorno al mio cuore, una tela di nervi lucida e nuova.
Metallo urlante. Un lucido specchio la materia, e tutto è più leggero di te.
Accompagnato dal mio nuovo splendido corpo non faccio alcuna fatica nel mettermi nei tuoi panni perché ogni disperazione ed insicurezza, ogni paura del conseguente, la dimenticanza e la boria che cavalca il momento a pelo, l’arroganza imprecisa dell’eletto, l’incuria bestiale del cane alfa quando il mite retrocede, non è che la prima scelta sbagliata della nuova carne. Non dell’animale che sgomita e si nasconde in branco per ritrovarsi.
Il sangue che ribolle lontano dalla normalità che tanto conforta è la chiave che apre la porta dell’evoluzione.
Cos’è l’insoddisfazione che ti marchia la fronte?
Come il primo uomo.
Non Adamo.  Scelse di combattere arrogandosi il diritto di essere.
Contro il padre.
Necessariamente.
Risalita e caduta. Dipendenza. Non esiste sostanza che possa straziarti le vene, non è che la condanna che meriti, un’altra catena che l’uomo pavido ti propose perché l’eternità dorata nascosta sotto il tuo seno esiguo finga di assomigliare alla triste rassegnazione del procreare, promuoversi, carpire, morire.
Vorrei poterti toccare. Rendere adesso le palme delle mie mani lisce come le tue che ricordo. Accarezzarti la schiena perfetta sussurrando la poesia del viaggiatore eterno, del primo apolide.  Orme nel deserto che non hanno storie da raccontare ma che aspettano il canto del vento per essere portate via.
La prima scelta.
È nel tuo prossimo risveglio che voglio credere, quando nuovamente l’ossigeno, franando, in frammenti, da questa realtà fragile ti esploderà nel petto come una rabbia incontenibile. Femmina finalmente. Incarnazione caotica di una celebrazione fertile e violenta. Menade di nessun dio. Furia primigenia senza lirismo viva.
L’ossigeno che torna.
La realtà fratturata che vivendo imparasti ad aggiustare, adesso senz’importanza alcuna piegata al tuo volere.
Conscia della tua forza. Prima.
Un canto che non osai mai, di carne fraterna.

lunedì 15 novembre 2010

Le ansie carnivore del niente, di Alejandro Jodorowsky



Trovo molto difficile commentare questo libro ed al tempo stesso mi risulta impossibile non farlo.
La storia inizia con la comparsa dei tre protagonisti che non ricordano più niente di se, immortali, neutri, in un paese devastato dalla dittatura di un misterioso Generale, il quale balena dalle televisioni portatili (e non) che si trovano ovunque, arringando da li il popolo fedele (ma anche no), ricordando continuamente la sua schiacciante superiorità.
Prosegue poi con la metamorfosi dei tre, la perdita della memoria si fa via via meno importante perchè il loro compito, il loro essere, si modella in funzione delle persone che incontrano, delle situazioni cui si trovano confrontati.

Questo libro è un incrocio CONTINUO di simboli, di sottotesti, di una poesia brutale ed al tempo stesso delicata che canta alla gente semplice ed al potere, alla vita ed all'estinzione umana, al tutto, al niente. La costante affermazione di non identità dei protagonisti confrontata con il devastante super-ego del Generale fa pensare al significato dell'individuo, al suo modellarsi rispetto ad un mondo ignoto, al valore stesso della parola esistenza. Il condor, che si nutre dei resti dei cadaveri, è il simbolo della vita: nella putrefazione tutto risorge e saranno i "diversi" i soli portatori della salvezza (se mai ne esisterà una), nella loro unicità così vicini al Generale che tutto può, eterno e divinamente onniscente, non certo i guerriglieri, così lontani: sempre pronti a farsi a pezzi per un ideale che porterà solamente dolore ed il prezioso sangue, sprecato.

E' un libro a tratti difficile da leggere, scritto bene ma circolare, pesantemente visionario, che però ripaga sempre della fatica che a volte si fa a immedesimarsi nei personaggi con una pesante sensazione di vuoto, di quel vuoto che dev'essere compulsivamente riempito, che ti spinge a costruire nuovi pensieri per farlo, magari nuovi mondi, piccoli mondi senza importanza, o anche no.

Mi ha ricordato 1984 di Orwell, ma anche (molto in alcuni passaggi) il Pasto Nudo e Nova Express di Burroughs, i Canti Orfici di Campana e Il Giorno che Teresa si arrabbiò con Dio, sempre di Jodorowsy, anche se queste suo ansie carnivore del niente è molto più profondo e complesso, tanto che tutti questi esempi non servono a niente.
Assolutamente a niente.