dettaglio dell'affresco di Benozzo Gozzolli - Cappella dei Magi, palazzo Medici Riccardi |
Credevo che il sole non avrebbe più ferito gli occhi, che non sarei più stato costretto a farne fessura per misurarmi al suo deflagrante calore.
Ma siamo déi confusi, gettati su di
una strada che non ci offre nessuna indicazione utile sul dove sia
meglio guardare; dove decine, centinaia di persone sembrano non aver
bisogno di guardare quell'astro luciferino per conoscere quale sia la
direzione che davvero valga la pena percorrere.
Attenderò la notte, pensai. Le stelle
lontane saranno amiche, suggeriranno un futuro che mi aspetta.
Ma siamo déi malati e, mentre l'attesa
per la fresca, dolce notte colorava i vagabondi con i toni ocra di un
tramonto da venire, il tempo cominciò a far sembrare quest'attendere
sempre più inutile, il ciglio fragrante dove stavo sostando,
scomodo. Tutte le facce sconosciute che mi passavano davanti più
determinate di quanto sarei mai potuto essere. Più sicure. Degne.
Mi sentii fuori posto. Guardavo schiene
piegate sotto quei fardelli con invidia, il sudore che colava dalle
loro fronti come guarda l'acqua di una fonte un assettato da venti
giorni di deserto.
Guardavo decine, centinaia di esistenze
sfilarmi d'innanzi, ed io, come un pigro, un senza casa e dignità,
un buono a nulla, rimanevo lì ad osservare, come godendone la
fatica.
Cosa penseranno di me, pensai cosa
penseranno, carichi delle loro cose guadagnate, del loro degno
fardello, di quest'uomo che beato, proprio sul crocicchio della via,
se ne sta senza nient'altro da fare che. Che spiumare i petali gialli
dei piscialletto, pensai.
Così. Preso dalla vergogna
incontenibile per l'inutilità che in quel momento rappresentavo nei
confronti di quegli instancabili lavoratori. Mi alzai, staccandomi
dalla terra accogliente e morbida. Mi diressi verso il centro della
strada.
Senza sapere cosa avrei fatto una volta
arrivato là mi trovai circondato da ogni tipo di umanità. Uomini
con fagotti su entrambe le spalle e donne che sfoggiavano bandoliere
intere di pupi urlanti, in equilibrio sulla testa vasi d'acqua o
vino, involti di stracci. Intorno, come cani da mercato razzolavano
una selva di cuccioli d'uomo, rimessi in riga ogni tanto, con grida
imperative a secche, da quello che poteva essere un padre, o ripreso
dalla voce alta ed autoritaria di un'ipotetica madre, sovrappeso e
baffuta.
Quello che dall'esterno era sembrato un
quieto flusso umano, al suo interno si rivelò essere un pandemonio
di strilli e polvere. Il sudore, così distante dall'acqueo rilucere
vivo visto da da lontano, impregnava ogni movimento e
saturava il respirare. La polvere come una foschia perenne, si
sollevava dal sentiero, mischiandosi alla fatica di questa carovana
chiassosa e casuale, in un'amalgama di fango e fatica.
Quando giunsi nel centro
della bolgia ero ormai così sconvolto e stremato che faticavo a
trovare il cielo. L'unica cosa che in quell'orgia di chiasso, in
quella confusione bestiale, mi permetteva di orientarmi, erano le
spalle di chi, come me, non vedeva che le spalle di chi gli stava
poco di fronte.
Andare avanti ancora un poco prima che la sera giunga completamente.
Andare avanti ancora un poco prima che la sera giunga completamente.
Ma siamo déi ciechi, sotto tutta
questa polvere nemmeno si vedeva il cielo. Nemmeno si vedevano le
stelle, troppo lontane e troppe pure, giocosamente nascoste ai miei
occhi rossi nello sforzo di capire quel che avevamo intorno.
E calci, spintoni, alitosi e puzza da
bestie che mi sbatteva addosso.
E bestemmie e corpi che mi portavano in
un avanti che non avevo scelto e che adesso mi trascinava via.
Ma siamo déi persi, sotto la polvere
di questo continuo avanzare, portarsi avanti verso una meta che
nemmeno noi siamo davvero in grado di descriverci, così distanti dal
cielo, dall'iperboreo. Caricati da troppo peso sulle spalle. Affaticati coliamo il sudore della nostra
fronte in un simile fiume di fango nel quale guadiamo, un piede dopo
l'altro, uniti da una speranza basata su qualcosa che troppo
assomiglia alla ragliata promessa di un sudicio prete. La mano sulla
spalla di chi ci è di fronte. Che io non mi perda, che tu non ti
perda fratello. Nostra sorella ci rinfranchi ogni tanto e terga con mano partecipe la polvere dagli occhi. Nella speranza di
rivedere il sole, che un cielo sgombro ci possa finalmente indicare
la strada giusta da percorrere.
Non ricordo più quanti giorni sono ormai che avanzo. Ricordo a malapena l'odore dell'erba. A volte,
stremato, raggomitolato per cercare calore, mi soffermo a pensare al
momento in cui abbandonai il ciglio sul crocicchio. Sento i muscoli
frustarmi le ossa per la fatica. Cerco di convincermi che no, la cosa
giusta è andare avanti insieme ai miei simili, ai miei compagni. Un
destino comune a percorrere una strada comune. Shangri-La? Berlino? Un mondo
più giusto, un modo più dolce di sentire il tempo e sentirsi
singoli e moltitudine. Mi soffermo a giocare con la fantasia,
immaginando di non essermi alzato, di aver atteso semplicemente che
il sole sfumasse ocra e tenebra, che facesse posto alla notte, alle
fottute stelle. Mi sorprendo a chiedermi se attraverso quelle antiche
luminosità avrei potuto forse trovare un sentiero diverso da questo.
Avessi avuto la pazienza di attendere. La forza di non cedere alla
solitudine. Il coraggio di affermare la scelta di non muovermi.
Ma siamo déi sognatori e la nostra
specie difficilemente ammete l'esistenza di strade diverse da quelle
che gli hanno dimostrato.
Perso tra reale ed il sogno mi muovo
cercando un contatto di chiunque sia che adesso giace qua di fianco a
me. Per riscaldarmi un po' il sangue, sentirmi meno solo che devo
dormire. Domani sarà una giornata lunga, faticosa. Incontro ad un
mondo nuovo e più giusto. Un'altra giornata ancora.