sabato 26 ottobre 2013

Il sentiero

dettaglio dell'affresco di Benozzo Gozzolli - Cappella dei Magi, palazzo Medici Riccardi


Credevo che il sole non avrebbe più ferito gli occhi, che non sarei più stato costretto a farne fessura per misurarmi al suo deflagrante calore.

Ma siamo déi confusi, gettati su di una strada che non ci offre nessuna indicazione utile sul dove sia meglio guardare; dove decine, centinaia di persone sembrano non aver bisogno di guardare quell'astro luciferino per conoscere quale sia la direzione che davvero valga la pena percorrere.

Attenderò la notte, pensai. Le stelle lontane saranno amiche, suggeriranno un futuro che mi aspetta.

Ma siamo déi malati e, mentre l'attesa per la fresca, dolce notte colorava i vagabondi con i toni ocra di un tramonto da venire, il tempo cominciò a far sembrare quest'attendere sempre più inutile, il ciglio fragrante dove stavo sostando, scomodo. Tutte le facce sconosciute che mi passavano davanti più determinate di quanto sarei mai potuto essere. Più sicure. Degne.

Mi sentii fuori posto. Guardavo schiene piegate sotto quei fardelli con invidia, il sudore che colava dalle loro fronti come guarda l'acqua di una fonte un assettato da venti giorni di deserto.

Guardavo decine, centinaia di esistenze sfilarmi d'innanzi, ed io, come un pigro, un senza casa e dignità, un buono a nulla, rimanevo lì ad osservare, come godendone la fatica.

Cosa penseranno di me, pensai cosa penseranno, carichi delle loro cose guadagnate, del loro degno fardello, di quest'uomo che beato, proprio sul crocicchio della via, se ne sta senza nient'altro da fare che. Che spiumare i petali gialli dei piscialletto, pensai.

Così. Preso dalla vergogna incontenibile per l'inutilità che in quel momento rappresentavo nei confronti di quegli instancabili lavoratori. Mi alzai, staccandomi dalla terra accogliente e morbida. Mi diressi verso il centro della strada.

Senza sapere cosa avrei fatto una volta arrivato là mi trovai circondato da ogni tipo di umanità. Uomini con fagotti su entrambe le spalle e donne che sfoggiavano bandoliere intere di pupi urlanti, in equilibrio sulla testa vasi d'acqua o vino, involti di stracci. Intorno, come cani da mercato razzolavano una selva di cuccioli d'uomo, rimessi in riga ogni tanto, con grida imperative a secche, da quello che poteva essere un padre, o ripreso dalla voce alta ed autoritaria di un'ipotetica madre, sovrappeso e baffuta.

Quello che dall'esterno era sembrato un quieto flusso umano, al suo interno si rivelò essere un pandemonio di strilli e polvere. Il sudore, così distante dall'acqueo rilucere vivo visto da da lontano, impregnava ogni movimento e saturava il respirare. La polvere come una foschia perenne, si sollevava dal sentiero, mischiandosi alla fatica di questa carovana chiassosa e casuale, in un'amalgama di fango e fatica.

Quando giunsi nel centro della bolgia ero ormai così sconvolto e stremato che faticavo a trovare il cielo. L'unica cosa che in quell'orgia di chiasso, in quella confusione bestiale, mi permetteva di orientarmi, erano le spalle di chi, come me, non vedeva che le spalle di chi gli stava poco di fronte.

Andare avanti ancora un poco prima che la sera giunga completamente.

Ma siamo déi ciechi, sotto tutta questa polvere nemmeno si vedeva il cielo. Nemmeno si vedevano le stelle, troppo lontane e troppe pure, giocosamente nascoste ai miei occhi rossi nello sforzo di capire quel che avevamo intorno.

E calci, spintoni, alitosi e puzza da bestie che mi sbatteva addosso.

E bestemmie e corpi che mi portavano in un avanti che non avevo scelto e che adesso mi trascinava via.

Ma siamo déi persi, sotto la polvere di questo continuo avanzare, portarsi avanti verso una meta che nemmeno noi siamo davvero in grado di descriverci, così distanti dal cielo, dall'iperboreo. Caricati da troppo peso sulle spalle. Affaticati coliamo il sudore della nostra fronte in un simile fiume di fango nel quale guadiamo, un piede dopo l'altro, uniti da una speranza basata su qualcosa che troppo assomiglia alla ragliata promessa di un sudicio prete. La mano sulla spalla di chi ci è di fronte. Che io non mi perda, che tu non ti perda fratello. Nostra sorella ci rinfranchi ogni tanto e terga con mano partecipe la polvere dagli occhi. Nella speranza di rivedere il sole, che un cielo sgombro ci possa finalmente indicare la strada giusta da percorrere.

Non ricordo più quanti giorni sono ormai che avanzo. Ricordo a malapena l'odore dell'erba. A volte, stremato, raggomitolato per cercare calore, mi soffermo a pensare al momento in cui abbandonai il ciglio sul crocicchio. Sento i muscoli frustarmi le ossa per la fatica. Cerco di convincermi che no, la cosa giusta è andare avanti insieme ai miei simili, ai miei compagni. Un destino comune a percorrere una strada comune. Shangri-La? Berlino? Un mondo più giusto, un modo più dolce di sentire il tempo e sentirsi singoli e moltitudine. Mi soffermo a giocare con la fantasia, immaginando di non essermi alzato, di aver atteso semplicemente che il sole sfumasse ocra e tenebra, che facesse posto alla notte, alle fottute stelle. Mi sorprendo a chiedermi se attraverso quelle antiche luminosità avrei potuto forse trovare un sentiero diverso da questo. Avessi avuto la pazienza di attendere. La forza di non cedere alla solitudine. Il coraggio di affermare la scelta di non muovermi.

Ma siamo déi sognatori e la nostra specie difficilemente ammete l'esistenza di strade diverse da quelle che gli hanno dimostrato.

Perso tra reale ed il sogno mi muovo cercando un contatto di chiunque sia che adesso giace qua di fianco a me. Per riscaldarmi un po' il sangue, sentirmi meno solo che devo dormire. Domani sarà una giornata lunga, faticosa. Incontro ad un mondo nuovo e più giusto. Un'altra giornata ancora.

mercoledì 2 ottobre 2013

Del Mercato Emotivo Globale



"Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo.
Bene, adesso si divora da solo."
Charles Bukowski

Che non è solamente l'economia ad essere influenzata dal capitalismo e dal liberismo suo figlio bastardo.
Mondo d'uomo, società d'uomo, pensiero, emozioni d'uomo.

Non ho le conoscenze per entrare nel merito dei massimo sistemi e, in tutta onestà sono anche quelli che meno mi interessano. Mi appassionano molto di più i microcosmi, le interazioni fra uomini piccoli, fra le vite semplici, siano esse splendenti che opache ( con, ammetto, una naturale propensione per quelle opache).

ASSUNTO: ogni rapporto umano, in un modo o nell'altro, basa il proprio equilibrio sullo scambio di servizi delle singolarità in gioco.

ASSUNTO: ogni singolarità che partecipa allo scambio porta con se un particolare patrimonio d'esperienza che, nell'ambito della contrattazione, può diventare essa stessa servizio o contropartita per un servizio erogato.

ASSUNTO: ogni singolarità tenderà sempre alla conservazione di uno Stato di Controllo (SC); ogni sbilanciamento di questo, in positivo o negativo che sia, tende verso la creazione di Stati Emotivi Non Trattabilli (SENT).

ASSUNTO: ogni singolarità ha paura.

Affrancati dal fatto che il commercio in quanto tale non è adesso di nessun interesse specifico per la questione in essere, eviteremo quindi esempi attinenti al mero scambio di merci. Non soltanto per la mia suddetta scarsa competenza nelle questioni economiche, ma soprattutto perchè la valutazione delle merci, per esempio il valore di un pianoforte a coda, può cambiare di paese in paese, in base alla qualità delle parti che lo compongono o alla storia che lo accompagna, ma, in qualche modo, sia esso un comune listino di negozio oppure l'esperta valutazione di un antiquario, dico, tirando in ballo conoscenze tecniche o un computer che sfogli Google, il valore di questo pianoforte a coda può essere facilmente stabilito. Almeno quello estrinseco. Se ne calcola il prezzo e si tratta.

La questione diventa più complessa entrando invece nel merito dello Scambio di Servizi Emotivi, Completo (SSEC) o Parziale (SSEP).

Lo Scambio di Servizi Emotivi Completo si ha nel momento in cui due o più singolarità trattano emozioni basate principalmente sulla propria Esperienza Pregressa (EP), comprensiva quindi di educazione genetica e genitoriale, conoscenze acquisite, passioni.

Lo Scambio di Servizi Emotivi Parziale presuppone invece che nella contrattazione, oltre alla Personale Esperienza Pregressa (PEP), siano fattori determinanti anche valori quantificabili quali merci o semplicemente denaro.

E' doveroso altresì fare una precisazione in merito alla durata che può avere una contrattazione di questo tipo. Anche se, per brevità e facilità di comprensione, in questa sede risulti meglio limitarsi all'ordine delle Trattative Passeggere (TP), vero è che in ambito umano spesso ci troviamo di fronte a Trattative Finchè Morte Non Ci Separi (TFMNCS). L'argomento si complica ulteriormente se si pensa che ogni singolarità tratta in genere da due a tantissime transazioni che procedono parallele e più spesso ancora si intrecciano e influenzano a vicenda. Tutte varianti fra loro per fattori come Peso Parentale (PP), Gamma di Colpe (GC), Compenetrazione Sensuale (CS), Deviazioni Mistiche (DM) ed un vasto insieme di altre variabili che ne pesano la Massa Emotiva (ME).

Doveroso anche aggiungere che con il passare del tempo ogni Scambio Completo tende inevitabilmente a trasformarsi in Parziale, in base all'oscillazione che le Trattative in Essere (TIE) infliggono al personale Stato di Controllo delle singolarità.

Ritengo particolarmente interessante, senza necessariamente imporre un giudizio personale in merito alla Complessità dell'Esistenza Umana (CEU) far notare come, in termini di Esperienza Emotiva Acquisita (EEA), in genere le trattative di tipo Completo siano annoverabili fra le Esperienze Formative Positive (EFP), mentre quelle Parziali rientrino in genere nella categoria delle Esperienze Formative Evitabili (EFE).

Per fare qualche facile esempio potremmo annettere un primo bacio, uno scambio di sguardi, l'interplay con la tua band o uno spettacolo di Bill Hicks nell'ambito dello Scambio Emotivo Completo. Mentre le pratiche per un divorzio, il lavoro salariato, lo scambio di favori con una puttana o chiedere in prestito soldi ad una persona per cui non si ha la minima stima come ambito Parziale.

Facile evincere da questi sciocchi esempi che l'infiltrazione di un sistema liberista, che basa troppo spesso la Forza Contrattuale Emotiva (FCE) delle singolarità su di un Facile Avere Momentaneo (FAM) non fa altro che spostare il Mercato Emotivo Globale (MEG) verso un tipo di contrattazione Parziale.

Riprendendo l'assunto per cui tutte  le singolarità tendono ad uno Stato di Controllo e l'assunto per cui tutti hanno paura, risulta altresì facile comprendere che, allo stato delle cose, anche il Mercato Emotivo, al pari della sua controparte economica, è legato a quanto di materiale può essere messo in gioco e che quindi, anche nel fragile contesto dei sentimenti, risulta spesso più importante la fiducia del tuo banchiere che la dignità della tua persona.

Da fine osservatore dell'inconsistente ci terrei anzichenò a far notare che, come nell'economia reale, lo scambio di servizi e merci è siamese alla finanza e che questa, per sua degenerata natura genera derivati. Conscio della parzialità deviata e criminale del concetto di derivato, non posso che chiedermi che tipo di interesse possa essere generato da un'economia emotiva.

Quale debito viene accumulato scambiando sentimento, dignità e dolore in cambio di una sopravvivenza ed un benessere materiale passeggero?

In che modo potrà essere estinto un debito acquisito nello scambio di passione contro denaro, tipico di una Trattativa Economica Parziale?

Questi ed altri temi affronterò (forse) nel prossimo articolo sul tema (se mai ci sarà): la Decrescita Emotiva Felice.

mercoledì 18 settembre 2013

Lilith


"L'uomo è per natura superiore, la donna inferiore; 
il primo comanda, l'altra ubbidisce, 
nell'uno v'è il coraggio della deliberazione, 
nell'altra quello della subordinazione."

Aristotele, Politica, IV sec. a.e.c.


Dentro ad un cuore aperto non c'è niente. Catrame, piume, l'alba tracciata  da una suola guardiana, ferro ossidato e rosso trasportato come polline dal vento, ignaro, che sfiora le mie labbra ambrate. La prima luce del giorno taglia la nuvola pregna, corposa, di fumo, mentre le scivola dentro slabbrandola con i bordi infuocati dal suo silenzioso confine buio, ritratto infine oltre l'orlo amaro del cemento, incorniciando la grata bassa.

Smalto da tossica sfatta, a forza di grattar via quella patina sabbiosa dalle pareti, erette come le mura di Gerico ed io quasi senza il fiato per respirare in mezzo a questo macello. Le mie vocali un tempo rotondamente morbide, sezionate  dal plesso straziato nella contrazione della carne che ti grida attraverso: liberami! Fermami!

Non è che un bramito sforzato e basso l’ultimo inutile cercare di attirare qualcuno.
La ferrovia crepita e sbatte. C’è sempre un treno che passa.
La pelle viva che cade dallo zigomo è una marea che si ritrae.
Mi ha sbattuto la testa al suolo una volta. Poi un’altra. Mi ha sbattuto la testa al suolo, la testa. Prima di perdere i sensi ho sentito la croccantezza del volto assecondare la pietra d’improvviso bollente che m’entrava in faccia. Poi una stoccata di luce accecante proprio su dal naso, prima di perdere i sensi.  Mi sono risvegliata con il secondo colpo sul pavimento lurido, ma ormai non sentivo più niente, per quanto potesse importare mentre, bloccata a terra, lo sbattere di quei lombi impossibili non faceva che spingere verso di me sapore di sudore, di acqua di colonia e di cherosene.

Il terzo giorno m’infilò il pugno nel culo.

Non fu facile da far entrare, ma poi con un po’ di ketamina andò tutto meglio. Il giorno dopo, quando ripresi conoscenza, avevo il petto fasciato ed una macchia scura ed appicicaticcia all’altezza del seno, complice di un dolore pulsante e sordo. Mi svegliò che la notte era ormai caduta. Per ore, avevo sbattuto contro la porta urlando, chiamando il mio guardiano, implorandolo, cercando di blandirlo, ingiuriandone la stirpe, l’odore, la faccia come una bocca aperta ormai simile a cuoio e cromo, esploso, le nocche delle mani come carboni ardenti avevano lasciato il posto al livore angelico delle ossa, la mia richiesta sempre più flebile, fino a spegnersi…rendimi il capezzolo. Rendimi il capezzolo!

Ma la ferrovia crepita e sbatte. Perché c’è sempre un treno che passa.

I giorni non ci sono più. Catrame dentro ad un cuore aperto. Progressivamente, sempre più violento e distaccato, come un bambino ormai stanco della novità del suo giocattolo nuovo. Piscio e cinghiate. Oggetti in bocca e corde. La ketamina, l’eroina, il valium, il rohypnol e il darkene. Un rasoio, sotto la mammella. I pugni sulle tette, sempre. Ogni giorno pugni sulle tette e calci fra le gambe. Poi si è preso anche l’orecchio, un pezzo. Un trinciapollo nella destra e la mia fronte poggiata su di una coperta a quadri, che puzzava di gatto, tenuta ferma con l’altra mano.

Guarda che unghie, penso. Poi l’odore di fumo si fa più acre. L’unico occhio ancora aperto comincia a lacrimare mentre piano l’ossigeno se ne va, finalmente, dai polmoni brucianti, e tutto di fronte a me sfuma cremisi e s’accende.
Passa un treno. Tu-tum tu-tum delle longarine sotto le ruote d’acciaio. Sfila proprio dietro a queste mura invisibili, fischiando sempre più lontano.

Ed il fuoco non è dolore ma la promessa di una salvezza di cenere.
Sono solo una storia, come tale portata via dal vento, via dall'inferno che un uomo qualunque scelse per me.

Nota. aggiornato a settembre 2013

giovedì 5 settembre 2013

Verme (primo sacrificio)

Le Labyrinthe (1938) -  André Masson 1896-1987 - olio su tela 120 x 61 cm

 "tutta questa Natura divinizzata si pittura proprio come una puttana, le seduzioni della quale altro non coprono che l'intima corruzione; e se andiamo ancora più in là, e riflettiamo che il misterioso cosmetico che produce tutti i colori, il gran principio della luce, rimane in se stesso bianco o incolore, e se agisse sulla materia senza una mediazione darebbe a tutte le cose, anche ai tulipani e alle rose, il tocco vuoto della sua tinta; se pensiamo a tutto ciò, l'universo paralizzato ci si stende innanzi come un lebbroso"
Herman Melville - Moby Dick

Così vengo e imploro.

Mi perderò oltre gli scogli della più bianca follia
mettendo oltre, le mani tese coi palmi in su,
non solo una fiducia che ostenta suicidio
ma l'arroganza di scegliere una morte sorella, disarmandomi
con il tuo nome, rotolando
nel gustoso corpo di fango che i tuoi tanti amanti
spezzati, distrutti, abbattuti,
con le loro lacrime hanno impastato dalla terra
tanto che in flutti frustano salati
le interiora di un male amore
su cui sovrana regni.

Eretta tra la spuma bianco sborra
regina vergina puttana infante,
del mio corpo con una fragilità siderale
calzerò passi e scalderò membra
il sangue e con la carne, colpa corrotta
spingerò ben dentro le costole albine questa lama
affinché la tua sete non sia placata mai.

Che non è l'affetto ne pace o convivio che bramo
non puro non giusto non bello
solo dolore e quotidiana lordura merito, amo
che l'acciaio dritto incida i muscoli
che il sangue nero dalla bocca a fiotti inquini questo mondo inutile
con la pestilenza che covo dentro,
punito, insultato e deriso
malato, respinto e picchiato
più questo sporco male c'ho dentro non posso trattenere
questo soffrire opaco che tanto la gente
normale! - chiede.

Pulite sembianze, voi cellophane
igienizzati bastardi ipocriti e assassini
siete voi il mio più grande orrore.

Amore nero, grande boia cuore silicio,
non esitare ancora.

Dolce fata follia, legami come l'agnello che questi lamentosi insulsi
si tolgono dai denti.

Morte mia sposa decaduta, non essere pietosa
colpisci la mia carne trista, rampona decisa!

Mai mi sarà più dolce andare
finalmente liberato dal fingere,
oltre questo goffo mucchio di nervi
trasformato in niente.

Tornato figlio e sacrificio
tuo, stelle sarò per sempre.

sabato 13 luglio 2013

dei lunghi addii, dell'attesa, delle partenze

Oskar Kokoschka, La sposa del vento, (La Tempesta), 1914, Olio su tela, Basilea, Kunstmuseum


per Bise


Giorni ormai, che la mia zingara
dolce, imprevisto, gioco di strada e letto,
ha ripreso il suo sentiero
nel viaggio imperfetto
che natura le impose.
Aria e sole, amiche compagne,
consolazione che gli occhi riarsi
da questa solitaria moltitudine
non mi fanno godere, ma solo
accecano e scompigliano pagine
di un libro (delle risposte-a-tutto) che ho dovuto strappare.
Gemendo, su di una panchina cresciuta nel cemento
ho dissetato il traffico ignorante
con acqua che non placa niente,
versando lacrime animali
prima del diventare bestia io stesso
frustando i miei musici stupiti.
Adesso ancora
la ragione che riprende il suo solito ruolo di signora,
ancora, in ogni gusto cui partecipo
stupisco cercandoti.
Viaggiatore, apolide io stesso,
comprendo troppo bene le ragioni
tenacemente amo
il ventre inquieto che ti ha tolto a me
fieramente rispetto
la pesantissima incertezza che non ti concede casa.
Ed infantile vecchio aspetto.
Non sulla riva di un fiume come un cinese saggio,
ma sulla mia barca di sughero
che ha un remo solo.
Ed è solo tempo, solo soldi, solo sesso,
solo mille cose leggere come polvere di vetro.
La verità toccata
quell'umida sensazione di dio
è intatta,
unica casa e per sempre approdo
della mia dolce, sposa zingara.

venerdì 5 aprile 2013

del Tonal ed altre uraniche sciocchezze (zecche part. II)


Ho parlato anche troppo di zecche, ed in effetti, non è che non ne provi in parte compassione. Perché lo so e capisco che può essere difficile sopportare la solitudine delle proprie cose non dette, che il senso di colpa è una brutta bestia. Che è difficile venire a patti con le proprie insicurezze non prendendosi il rischio di mettere in gioco il piatto di sincero dolore che ogni rapporto, sia esso amicale o romantico, chiede per poter sublimare oltre una gretta quotidianità solidale.

Volto una pagina, ben volentieri.

La numero 200 di una moleskine nera per la precisione e, mentre scrivo il numero in basso a sinistra, l'immensità d'avorio che queste stesse parole macchiano di un inarrestabile presente non mi provoca nessun senso di solitudine.
Non solitudine.
Non ansia.

Il fluire morbido della sfera sulla carta, l'arrotolare inchiostro in sintagmi, le pause che non proiettano che ombre mentre raccolgono pensieri in drappeggi di senso compiuto, pronti ad essere raccolti e di nuovo tessuti in lemma, in simboli che tutto racchiudono.

E' una metafora del vivere, ed è quella che preferisco.

Come le abitudine che accompagnano l'atto, che lo preparano.

La ricerca, il viaggio verso un luogo che permetta finalmente di stare con se stessi.

Perchè prima di tutto, scrivere è un'azione che si compie per se, un'egoistica rivendicazione d'ordine nel caos che collega la nostra soggettiva al tutto cui, inesorabilmente, apparteniamo.

Rivendicazione di uno spirito unico ed allo stesso tempo manifesto di appartenenza cosmica.

Rivendicazione d'individualità che non vive senza l'altro, senza condividere, senza mutuo dialogo.

E' un'azione umana che fa godere l'uno nell'immaginazione dell'altro e, come ogni arte, vive nella sensualità: un amplesso neuronale che sfuma umori d'inchiostro su di un corpo vivo di carta, come mani e bocche, sessi che si cercano, un ponte fra consapevolezze e materializzazione d'amore, unico degno Dio-Padrone, non chiede che un tributo d'entusiasmo e di passione per poter penetrare l'infinito mistero dell'esistere.

E' con dedizione autistica che, da quando ho ricordi, ho scelto questo mezzo per riordinarmi. Libri, fogli e quaderni. Lapis e penne. Compagni di vita di sempre che mi hanno aiutato a tirare avanti e crescere, a voltare pagine su pagine, ed adesso che ancora mi trovo a farlo voglio che sia senza odio, non in guerra, così da canalizzare e far mio questo dolore a cui così tanto devo.

E' un buon impegno, che mi fa star bene pensarlo.

Concludo come ho cominciato, con volontà, referente delle zecche.

La verità, la sincerità di cui parlo, non può che essere soggettiva: è la mia verità, la sincerità che ne consegue non è che il consumato vivere di un egolatra.

Su questo dolore salvifico e necessario voglio che il mio vivere sia fondato.

Quanto più è profonda la ferita infertami, tanto più le cicatrici che solcheranno il mio corpo saranno monito alla memoria ed esperienza, come carta in corpo vivo, un drappeggio vitale di simboli che mi rappresentano.

Se in qualche modo, zecche, siete rimaste offese dal mio precedente carteggio, sappiate che, in fondo, non c'era niente di personale, che non volevo essere ingiurioso ed ergermi a giudice delle vostre vite: è un compito che spetta a voi, di cui non voglio in alcun modo alleggerirvi del peso.

Voglio solo allontanarmi manifestando la mia estraneità al vostro conciliabolo d'insetti, senza giudizio che non sia di diversità da voi (che così tanto rende la vita un mistero e degna d'esser vissuta).

Sono stato cattivo, lo so, ed ho ferito e me ne compiaccio. Perchè ogni ferita aveva un senso ed una storia ad accompagnarla.

I miei ringraziamenti sinceri, anche con il senno di poi.

"Lasciatemi"

Non mi fermerete.

Che io menta
o abbia ragione,
non potrei essere più calmo.
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle
e insaguinato il cielo come un mattatoio.

Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!

Sordamente.
L'universo dorme,
poggiando sulla zampa
l'orecchio enorme con zecche di stellle."

da La nuvola in calzoni - Majakovskij 

sabato 30 marzo 2013

Una vacanza gitana


Poi arrivò l’incoscienza.

Prima. L’aria, nel grembo scuro della notte
fessa, di luce che filtra, oltre gli scuri.
Un respiro regolare
calmo,
senza paura di sbagliarmi: caldo.

Prima. Alfieri bianchi e in mezzo carne,
uno spasmo elettrico freme,
trattiene in fondo alla gola
un grido ferino.

Prima. Velluto, occhi sgranati che
fanno capolino da sotto una maschera
finalmente vista di fronte,
che non immaginavo,
rosse labbra, una delizia
di vocali, colorate, deliziosamente sussurrate.

Prima. Esitando in una promessa da uomo,
in desiderio, bilico
tra il greto di una strada e un tavolo di legno,
l’ebrezza e un’improvvisa confidenza,
i sensi bagnati e l’ospitalità di un gitano.

Gambe accavallate,
di una bellezza che giustifica il mondo.

Prima. La piazza vuota,
strascicata di passanti.

Ciao, come stai?

POSTUMI DI UN BECCO E SEMIOTICA DELLE ZECCHE



Forse non è che l’ennesima riprova di non appartenenza.

So di per certo che il dolore che inizialmente ho provato quando, finalmente, la verità è riuscita a tornare in superficie, già sfuma, con i secondi, il respiro, e diventa sempre meno pungente, ritrova la sua strada di crescita e, come una vecchia pelle che secca, crepata, si stacca, già fa intravedere una nuova consapevolezza, più elastica e più giovane.

Non è il mio orgoglio ad essere stato ferito, l’orgoglio è una virtù che, ben volentieri, lascio agli uomini che si vogliono pasciare in un falso retro-mondo di sicurezze.

La ferita che ha inciso questa vecchia pelle marcia ha piuttosto una lama d’ipocrisia. 

D’affetto tradito, anche.

Si, questo stupore che tanto mi ha afflitto proviene dall’appurare che un – supposto – mio simile possa vivere in una condizione di protratta menzogna.

Prosperare, sorridere, promettere, procreare.

Forse non è che l’ennesima riprova della mia ingenuità.

Grande ego, piccolo cervello, mi hanno detto.

Ma di per certo so che quello che provo è l’unica misura che ho del mondo, che solo attraverso i miei sensi posso districarmi nell’incoerente vivere, strutturare la mia etica e mettere alla prova la mia morale.

Questo mentire per sentirsi felici e ben pasciuti non è certo così inatteso da spaventarmi: c’è solo delusione sul mio corpo di povero cane, rimpianto, e assottigliata la distanza fino a diventar personale, è sulla vostra natura che mi porta ad interrogarmi, sulle prospettive evolutive che potete avere.

Specisticamente.

Com’è possibile divenire, se l’emotività che dovrebbe tratteggiare la nostra personalità, le pulsioni inequivocabili che ci contraddistinguono, l’insicurezza dolce e fertile di dubbi, come potete divenire se le tenete così ben nascoste sotto l’utile mantello del non rischiar di perdere ciò che volete?

Zecche.

Questa non è che ecologia da zecche. State attaccati ad un corpo altro da voi che vi fornisce sicurezza, sangue per sopravvivere.

L’uomo a cui aspiro non conosce menzogna. Per questo mi sento costretto alla verità.

L’uomo a cui aspiro non è perfetto. I santi sono specchietti per allodole sbronze.

Il mio entusiasmo vive con i creatori, gli sfrontati. Che non hanno paura di perdere qualcuno se non sono se stessi. Egoisti, sanno che non si perderanno mai. Il mio entusiasmo vive con chi non ha paura.

L’uomo ha paura, è solo.

Forse non è che l’ennesima riprova della mia grandezza.

So di per certo che il mio entusiasmo vive di una divina follia. Scomoda. Anacronistica. Sé.

So di per certo però, che il mio giudizio, la mia passione, nella quale le zecche vorrebbero ingrassare in atarassica comodità, è viva. È critica.

Di per certo so che fremo ed ardo e ogni dolore mi rende più forte.

Il mio sguardo più acuto, più fermo.

Godo panisticamente festeggio, mi faccio lama.

Per ogni dolore.

Grazie.

Zecche.

Grazie.

La mia pelle è più elastica e giovane.

Grazie.