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lunedì 12 aprile 2010

CANI - Romanzo a Puntate.


#1.4 Rrose Selavy

Mano a mano che si avvicinava alle case popolari, passo dopo passo, sentiva il terreno sempre più scivoloso sotto i piedi, come se l'intonaco sbreccato e sfarinato dagli anni si fosse depositato  in una uniforme patina scivolosa.
Arrivò fino all'androne del palazzo.
Una mostruosa maschera azteca di nomi e cognomi stava come una stele accanto all'ingresso che si affacciava su di un cortile interno, imberbe d'erba, rada e ingiallita. Non c'era nessuno con cui non incrociare lo sguardo e dopo essere rimasta un momento a non osservare quel triste prato, la figura esile con il cappotto lungo s'incamminò su per le scale.
Il padre di Rrose era un procuratore. Un uomo d'altri tempi, la fronte alta e socratica, il naso fine e dritto e due occhi azzurri come il ghiaccio, paralizzanti. Era un uomo potente ed influente e, dopo un primo momento di contrarietà verso le aspirazioni artistiche della figlia, così distanti dalla sua visione da legislatore. Non esitò mai a scomodare amicizie e confratevolina,   pescati fra le sue innumerevoli conoscienze per fargli avere la soffiata buona, l'indirizzo giusto dove andare, e sempre nuovo materiale per la carriera di fotografa free-lance della figlia.
Quella mattina l'aveva chiamata verso le nove e trenta. Sembrava ancora assonnato e si sentiva che stava tirando avidamente il filtro di una marlboro, seduto sulla sua preziosa poltrona in stile “nuovo impero”. Le disse di prendere carta e penna perchè un amico della polizia gli aveva dato un indirizzo. Nessuna possibilità di replica.
Se doveva essere una fotografa, sarebbe stata la migliore. Questo pensava papà, lo sapeva, e lei non chiedeva di meglio.
Quattro piani di scale, senza ascensore.
La prima porta del pianerottolo.
I cardini pendevano monchi e furono testimoni del suo ingresso nell'appartamento mentre lei passava oltre l'ingresso spalancato.
Dentro solo il rumore ossessionato di un frigorifero contro il soffitto basso e di tacchi battuti irrequietentemente di uno sbirro di guardia.
Il corpo pendeva.
Appeso.
L'appuntato mormorava, come una nenia, un chi può averlo fatto e non credevo, gli mettessi le mani addosso e figlio di puttana. Il militare non era che un ragazzetto, uno sbarbatello che stava discutendo con se stesso indirettamente, per darsi coraggio.
Quando vide entrare Rrose, l'impermeabile nero e bagnato, i capelli pesi d'acqua, si limitò a fargli nervosamente un cenno con il capo, pensando probabilmente che facesse parte della scientifica, non gli chiese un documento di riconoscimento né alcun chè.
Il corpo pedeva.
Appeso.
La catena fine, fissata con un moschettone al lampadario, non oscillava, ma sosteneva quel corpo incarnato sopra la sua immagine riflessa da un tavolino basso, con il ripiano superiore di vetro, dal quale una pozza di sangue non ancora del tutto coagulato, s'alimentava della ferita netta, fredda, con cui l'omicida graziò quel corpo straziato.
Una linea sottile e dritta, lungo la gola bianca.
Un sorriso d'acciaio perfetto che le cingeva il collo, ornato di lacrime ambrate, le ultime versate da quel corpo condannato.
Rrose appoggiò la borsa a terra. Tirò fuori la macchina, gli obbiettivi, i flash e lasciò tutto quanto accanto a se sul pavimento.
Lo sbirro stava appoggiato alla parete, vicino ad una stampa, una riproduzione su carta pergamena di un quadro di Dalì. La fissò per un attimo, incuriosita ed il milite girò la testa, imbarazzato, arrossendo un po'.
Il corpo pendeva.
Appeso.
L'angelo architettonico di Millet.
In ginocchio Rrose pensò alla luce, alle veneziane chiuse. Tirò fuori entrambi i flash.
Il bastardo non si era risparmiato.
Carne e muscoli esposti. Non un centimetro, un secondo di sofferenza risparmiata.
Il sangue brillava come caramello sulla carne sottostante, cristallizzato come un ricordo, una guaina di vita fuggita. Non le aveva risparmiato un centimetro di sofferenza, l'aveva scuoiata viva.
L'espressione di stupore che le era rimasta impressa sugli zigomi vivi non faceva che confermare quella sua diagnosi da dilettante. Il terrore che provava anche solo ad avvicinarsi a quel macello ne era la conferma.
Chiese di aprire le finestre allo sbirro immobile, ancora stampato alla parete, come un immobile angelo architettonico, ma questo, scuotendo il capo berrettato le rispose che in nessun modo poteva contaminare la scena del crimine.
Rrose fece spalluccia e ricominciò ad ignorare il poliziotto inutile.
Doveva essere stata una bellissima donna. Le girò intorno.
Flash! Poi un altro ed un altro flash ancora.
Non aveva bisogno d'istruire la sua modella perchè nella sua morte era già perfetta.
I muscoli tesi.
Appesi.
Contorno sovraesposto nel perfetto contrasto della morte.
Flash!
La gravità le distendeva i muscoli ancora non del tutto contratti dal rigor mortis le definiva una figura aggraziata, nobile, zigomi affilati e la mascella forte e muscolosa di chi sa quello che vuole.
Flash!
Un'altra immagine finì nella galleria degli orrori di Rrose mentre la meccanica scattava insensibile.
S'alzò dal ginocchio indolenzito.
L'imbeccata di suo padre, come sempre, era stata corretta.
Avrebbe mandato qualche e-mail, parlato con qualche amico, messo la pulce all'orecchio a qualche giornalista. Le avrebbe vendute bene quelle foto.
Si buttò le borse in spalla e salutando pigramente s'incamminò verso la porta.
Si appuntò il nome Luise Salomon sulla moleskine.
Fu di nuovo sul pianerottolo squallido. Zerbini di paglia intrecciata e scritte di benvenuto scolorito.
Vicino allo stipite della porta c'era un mucchietto di peli scuri, setolosi. Peli di bestia, forse di cane.
Senza pensarci prese un fazzoletto e li raccolse facendoli sparire in una delle tasche dell'impermeabile lungo.
Fu fuori. Fuori da quelle mura prefabbricate. Il vento in faccia era piacevolmente fresco, la rinvigoriva mentre le sbatteva in faccia.
S'infilò le mani in tasca e s'incamminò, la borsa a tracolla, in questa primavera stanca, che non arriva mai.

sabato 13 marzo 2010

CANI - Romanzo a puntate. #1.2 Prima luna (svezzato) + #1.3 Primo sangue (Lu)


1.2 Prima luna ( svezzato)

Uno spazio abissale divide il cielo scuro dall’asfalto srotolato stesomi in fronte,
come un deserto fiorito di sporadiche macchine, la guida di un lampione grande come
una stella esplosa che illumina lo scheletro esposto di una panchina di legno arenata,
in secca, tra il marciapiede di cemento ed il prato canuto d’erba, in tempesta,
s’infrange su imponenti scogli di merda di cane: tra essi la luce è una stella polare.
Percepisco il silenzio imperfetto dai miei passi. Accompagnato dal sussurrato
mormorare di una macchina fumosa, ferma nell’ombra di un albero che non serve a niente.
Un riflesso scuro  di femmina s’ inarca nell’atto di godere, l’eco di un sì sussurrato
rimbalza tra i vetri ovattati dell’auto ed il  palazzo di fronte: le strade senza amore
diventano un’alba che dipinge il paesaggio.
Stronzi di cane. Un sostantivo.
Il sedile di pelle è freddo. La musica, piano comincia a prendere la forma dei tuoi
capelli scossi dal capo, mia Dea.
Ogni dolore è un dono, parla piano o sveglieranno Belzebù!
Rido e stringo l’elsa fredda dei miei denti nella stretta di un palmo d’impazienza,
l’azzurro tagliente della lama sotto le dita curiose e senza vergogna, pregustanti
sangue, orgasmo e prima e più dolce preghiera.
Ed ogni passo mi porta più vicino alla verità che mai mi riuscì di spiegare.
Mentre tu ridi e balli in casa, un bicchiere di vino in mano, la sigaretta sbilenca
in bocca, ti siedi sul letto e scrivi qualcosa su di un libricino con la costola nera,
appoggiato aperto sulle lenzuola disfatte..
Sii buono e maria la Vergine bacerà la tua virtù!
Lascio la forma delle mie impronte digitali sul legno tirato, ancora caldo. Cerchi
concentrici che spiegano una vita,un I-CHING digitale. Pronuncio il nome della
Dea tre volte. Poi cinque. Poi dieci.
Ho le risposte che placano il dolore mentre esco dalla finestra infranta. Riposte
mentre m’alzo dalla panchina, al cospetto del giorno.
Risposte urlate da una chitarra distorta mentre il motore ringhia  costretto dal
cofano chiuso, prima d’essere placato dalla frizione.
Esco con il giorno che sorge ancora dal parcheggio.
Verrà il Signore, Signore di pace. Signore di pace.

1.3 Primo sangue (Lu)
  
S’insinua la luce tra le persiane strette. Come una prima luce.
-    Lu?

lunedì 22 febbraio 2010

CANI - Romanzo a puntate. Prologo + #1 Ulularti


PROLOGO



Pelle della giacca bagnata. L’aria che fende la notte è così fredda che fa male respirare.
L’alcol in corpo ha lasciato nella macchina gli ultimi barlumi sbilenchi della mia attenzione.
Un passo e un altro passo. D’avanti l’altro il piede ed un altro passo verso il bancone bianco.
Scintillante di luce fissa e gialla, sopra. Briciole e sale delle noccioline.
Tre Negroni. Fuori da questo buco nella via sgombra, pioggia. Ho ancora la sigaretta in bocca.
Fuori da questo buco. Il silenzio. Taglia più del vento. Adesso. Tacchi, punte lucide di stivali.
La folata di profumo mi stringe la bocca della stomaco. Una straordinaria giornata di pura follia
chimica mi erompe dalla bocca imbrattando quei bellissimi piedi e cado. Rido e mi piscio sotto.
Rido anche quando sento arrivare la botta allo stomaco. Sempre più divertito m’alzo e niente
può contenere l’eruttante rigurgito che sprigiono come un putto indemoniato sulla scintillante
divisa bianca. Intanto il collega con il fido raddrizza schiene m’impartisce la lezione del prete.
Penitente, smetto di ridere.


Sbirri di merda.



#1 ULULARTI

#1.1 Lu

Insomma mi stai dicendo che li vuoi denunciare?

No, ti sto spiegando che voglio l’indirizzo di quella troia che m'ha fracassato le costole.
Lo dico giocherellando con un limone. Me l’appoggio sulla fronte e faccio il verso della foca.

Non mi lascia nemmeno finire il mio numero. È in salotto e telefona. Dalla finestra della
cucina due occhi spiritati e folli mi fissano. Sorrido e quel che ne vien fuori non è
decisamente quello che mi aspettavo. Potresti dirmi dove trovare qualcosa da bere piuttosto
di blaterare con quella testa di cazzo di un avvocato che sai anche te che non ci
capisce una sega? Mentre un per niente interessante piano che ti sente proviene da lontano
trovo quello che cercavo: Vodka. Mi siedo e tracanno.

Questa zoccola sta facendo lo spettacolino della preoccupata e della dispiaciuta. In pratica
sta estorcendo un po’ di tempo da dedicare al mio bel cazzone. E quel coglione si preoccuperà e
sviolinerà la solita logorrea di consigli e di stai tranquilla che ci penso io.
Niente di meglio. Io intanto ho tutto il tempo di preparare lo spettacolino. Accendo il fornello,
scelgo un piatto e apparecchio. La vodka comincia a farmi stare un po’ meglio.
Sento che già mi tira.

La trattativa dura una decina di minuti. Ho il tempo di dare uno sguardo in giro per la cucina
e di trovare un foglio da cinquanta in un’agendina appoggiata su di una mensola, vicino ad
alcuni libri di cucina ed una lavagnetta con scritto: spinaci, corn flakes e assorbenti.

Quindici minuti per prendere il volo ancora un po’ e poi mi butta sulla sedia, al centro della
cucina, si toglie i jeans, le mutandine e mi spinge contro la faccia il suo cespuglio nero e
ispido. Se vuoi le tue informazioni guadagnatele, e da un colpo con i fianchi in avanti, tanto
che l’odore del suo sesso già caldo e profumato mi fa incazzare e mi riempie i pantaloni di
carne fremente, pulsante. Come un nervo teso mi alzo e le ficco il medio dentro.
Forzo con il pugno e lei con un gridolino si lascia sollevare fino a sbattere la schiena nel muro.
La vagina aperta come un delizioso sorriso. Fatto come sono sto quasi per ridacchiare, ma quando lei,
seria, me lo afferra alla base dicendomi coraggio ficcamelo dentro, non ci penso due volte.

Le vengo in faccia, a lei piace, ed anche a me. Poi mi siedo e prendo una bella sorsata dalla
bottiglia ancora aperta. Sento lo scorrere dell’acqua in bagno e lo strascichio di ciabattine da
casa sul pavimento. Quando torna ha un foglietto in mano ed una sigaretta sbieca in bocca.
Tieni te lo sei meritato, mi dice, l’appallottola e me lo tira. È bella. Un po’ magra forse,
ma quelle deliziose scapole le danno un’andatura dinoccolata e sensuale, e quegli occhi gelidi e
grandi uno sguardo attento e a volte dolce. Mi sta guardando come si guarda un autistico, indica
la porta, mi dice: smamma Billy the Kid, Thomas sta per tornare e tu hai ottenuto quello che volevi, mi pare.

Esco con un bacia mano galante, salutato da un vaffanculo e un non fare cazzate ancora più inutile.
Anche stasera l’aria è fredda. Ma non arriva mai sta cazzo di primavera?