sabato 30 marzo 2013

Una vacanza gitana


Poi arrivò l’incoscienza.

Prima. L’aria, nel grembo scuro della notte
fessa, di luce che filtra, oltre gli scuri.
Un respiro regolare
calmo,
senza paura di sbagliarmi: caldo.

Prima. Alfieri bianchi e in mezzo carne,
uno spasmo elettrico freme,
trattiene in fondo alla gola
un grido ferino.

Prima. Velluto, occhi sgranati che
fanno capolino da sotto una maschera
finalmente vista di fronte,
che non immaginavo,
rosse labbra, una delizia
di vocali, colorate, deliziosamente sussurrate.

Prima. Esitando in una promessa da uomo,
in desiderio, bilico
tra il greto di una strada e un tavolo di legno,
l’ebrezza e un’improvvisa confidenza,
i sensi bagnati e l’ospitalità di un gitano.

Gambe accavallate,
di una bellezza che giustifica il mondo.

Prima. La piazza vuota,
strascicata di passanti.

Ciao, come stai?

POSTUMI DI UN BECCO E SEMIOTICA DELLE ZECCHE



Forse non è che l’ennesima riprova di non appartenenza.

So di per certo che il dolore che inizialmente ho provato quando, finalmente, la verità è riuscita a tornare in superficie, già sfuma, con i secondi, il respiro, e diventa sempre meno pungente, ritrova la sua strada di crescita e, come una vecchia pelle che secca, crepata, si stacca, già fa intravedere una nuova consapevolezza, più elastica e più giovane.

Non è il mio orgoglio ad essere stato ferito, l’orgoglio è una virtù che, ben volentieri, lascio agli uomini che si vogliono pasciare in un falso retro-mondo di sicurezze.

La ferita che ha inciso questa vecchia pelle marcia ha piuttosto una lama d’ipocrisia. 

D’affetto tradito, anche.

Si, questo stupore che tanto mi ha afflitto proviene dall’appurare che un – supposto – mio simile possa vivere in una condizione di protratta menzogna.

Prosperare, sorridere, promettere, procreare.

Forse non è che l’ennesima riprova della mia ingenuità.

Grande ego, piccolo cervello, mi hanno detto.

Ma di per certo so che quello che provo è l’unica misura che ho del mondo, che solo attraverso i miei sensi posso districarmi nell’incoerente vivere, strutturare la mia etica e mettere alla prova la mia morale.

Questo mentire per sentirsi felici e ben pasciuti non è certo così inatteso da spaventarmi: c’è solo delusione sul mio corpo di povero cane, rimpianto, e assottigliata la distanza fino a diventar personale, è sulla vostra natura che mi porta ad interrogarmi, sulle prospettive evolutive che potete avere.

Specisticamente.

Com’è possibile divenire, se l’emotività che dovrebbe tratteggiare la nostra personalità, le pulsioni inequivocabili che ci contraddistinguono, l’insicurezza dolce e fertile di dubbi, come potete divenire se le tenete così ben nascoste sotto l’utile mantello del non rischiar di perdere ciò che volete?

Zecche.

Questa non è che ecologia da zecche. State attaccati ad un corpo altro da voi che vi fornisce sicurezza, sangue per sopravvivere.

L’uomo a cui aspiro non conosce menzogna. Per questo mi sento costretto alla verità.

L’uomo a cui aspiro non è perfetto. I santi sono specchietti per allodole sbronze.

Il mio entusiasmo vive con i creatori, gli sfrontati. Che non hanno paura di perdere qualcuno se non sono se stessi. Egoisti, sanno che non si perderanno mai. Il mio entusiasmo vive con chi non ha paura.

L’uomo ha paura, è solo.

Forse non è che l’ennesima riprova della mia grandezza.

So di per certo che il mio entusiasmo vive di una divina follia. Scomoda. Anacronistica. Sé.

So di per certo però, che il mio giudizio, la mia passione, nella quale le zecche vorrebbero ingrassare in atarassica comodità, è viva. È critica.

Di per certo so che fremo ed ardo e ogni dolore mi rende più forte.

Il mio sguardo più acuto, più fermo.

Godo panisticamente festeggio, mi faccio lama.

Per ogni dolore.

Grazie.

Zecche.

Grazie.

La mia pelle è più elastica e giovane.

Grazie.