venerdì 5 aprile 2013

del Tonal ed altre uraniche sciocchezze (zecche part. II)


Ho parlato anche troppo di zecche, ed in effetti, non è che non ne provi in parte compassione. Perché lo so e capisco che può essere difficile sopportare la solitudine delle proprie cose non dette, che il senso di colpa è una brutta bestia. Che è difficile venire a patti con le proprie insicurezze non prendendosi il rischio di mettere in gioco il piatto di sincero dolore che ogni rapporto, sia esso amicale o romantico, chiede per poter sublimare oltre una gretta quotidianità solidale.

Volto una pagina, ben volentieri.

La numero 200 di una moleskine nera per la precisione e, mentre scrivo il numero in basso a sinistra, l'immensità d'avorio che queste stesse parole macchiano di un inarrestabile presente non mi provoca nessun senso di solitudine.
Non solitudine.
Non ansia.

Il fluire morbido della sfera sulla carta, l'arrotolare inchiostro in sintagmi, le pause che non proiettano che ombre mentre raccolgono pensieri in drappeggi di senso compiuto, pronti ad essere raccolti e di nuovo tessuti in lemma, in simboli che tutto racchiudono.

E' una metafora del vivere, ed è quella che preferisco.

Come le abitudine che accompagnano l'atto, che lo preparano.

La ricerca, il viaggio verso un luogo che permetta finalmente di stare con se stessi.

Perchè prima di tutto, scrivere è un'azione che si compie per se, un'egoistica rivendicazione d'ordine nel caos che collega la nostra soggettiva al tutto cui, inesorabilmente, apparteniamo.

Rivendicazione di uno spirito unico ed allo stesso tempo manifesto di appartenenza cosmica.

Rivendicazione d'individualità che non vive senza l'altro, senza condividere, senza mutuo dialogo.

E' un'azione umana che fa godere l'uno nell'immaginazione dell'altro e, come ogni arte, vive nella sensualità: un amplesso neuronale che sfuma umori d'inchiostro su di un corpo vivo di carta, come mani e bocche, sessi che si cercano, un ponte fra consapevolezze e materializzazione d'amore, unico degno Dio-Padrone, non chiede che un tributo d'entusiasmo e di passione per poter penetrare l'infinito mistero dell'esistere.

E' con dedizione autistica che, da quando ho ricordi, ho scelto questo mezzo per riordinarmi. Libri, fogli e quaderni. Lapis e penne. Compagni di vita di sempre che mi hanno aiutato a tirare avanti e crescere, a voltare pagine su pagine, ed adesso che ancora mi trovo a farlo voglio che sia senza odio, non in guerra, così da canalizzare e far mio questo dolore a cui così tanto devo.

E' un buon impegno, che mi fa star bene pensarlo.

Concludo come ho cominciato, con volontà, referente delle zecche.

La verità, la sincerità di cui parlo, non può che essere soggettiva: è la mia verità, la sincerità che ne consegue non è che il consumato vivere di un egolatra.

Su questo dolore salvifico e necessario voglio che il mio vivere sia fondato.

Quanto più è profonda la ferita infertami, tanto più le cicatrici che solcheranno il mio corpo saranno monito alla memoria ed esperienza, come carta in corpo vivo, un drappeggio vitale di simboli che mi rappresentano.

Se in qualche modo, zecche, siete rimaste offese dal mio precedente carteggio, sappiate che, in fondo, non c'era niente di personale, che non volevo essere ingiurioso ed ergermi a giudice delle vostre vite: è un compito che spetta a voi, di cui non voglio in alcun modo alleggerirvi del peso.

Voglio solo allontanarmi manifestando la mia estraneità al vostro conciliabolo d'insetti, senza giudizio che non sia di diversità da voi (che così tanto rende la vita un mistero e degna d'esser vissuta).

Sono stato cattivo, lo so, ed ho ferito e me ne compiaccio. Perchè ogni ferita aveva un senso ed una storia ad accompagnarla.

I miei ringraziamenti sinceri, anche con il senno di poi.

"Lasciatemi"

Non mi fermerete.

Che io menta
o abbia ragione,
non potrei essere più calmo.
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle
e insaguinato il cielo come un mattatoio.

Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!

Sordamente.
L'universo dorme,
poggiando sulla zampa
l'orecchio enorme con zecche di stellle."

da La nuvola in calzoni - Majakovskij 

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